La vittoria di Enrico

 

Questa è la storia di mio nonno materno, Enrico.

Gli piaceva moltissimo raccontarmi gli avvenimenti della sua lunga vita, anche perchè di cose ne aveva proprio tante da far rivivere a me piccolina che, interessatissima lo ascoltavo, mentre mi stringeva tra le sue forti braccia.

Le sue storie di vita vissuta erano così intense di sentimento, che trapelava anche dalle espressioni dei suoi bellissimi occhi azzurri, e non mi stancavo di ascoltare con entusiasmo

Dai suoi racconti, dalle sue parole ed espressioni ho conosciuto gli affanni della guerra, che lui e tutti i miei nonni e genitori avevano vissuto.

la vittoria di Enrico

Tutte le volte che potevo chiedevo a mio nonno: “mi racconti una storia?”

e lui: “Quelle che ti racconto non sono storie.. è la mia vita!!” e iniziava i sui racconti dicendo: “Mi ricordo che un giorno…..!!”


Com’era accaduto già pochi mesi prima, il treno della linea che

attraversava la campagna, nei pressi della loro casa, si fermò. 

Si udì un forte fischio dei freni sulle rotaie, si aprirono gli sportelli dei vagoni carichi di giovani e scesero un gran numero di militari con le armi in pugno. Passarono a rassegna tutte le case, alla ricerca di ragazzi da arruolare, portavano via tutti i giovani tra i sedici e i diciotto anni. 



In quella grande casa bianca l’unico “uomo” rimasto era il figlio minore, Enrico. Era lui il capo famiglia da quando il padre e i quattro fratelli erano stati arruolati.  Erano tutti al fronte, chissà dove, nessuna notizia era giunta a casa dalla loro partenza. Enrico, il piccolo di casa, era troppo giovane per andare a fare la guerra. Non aveva ancora compiuto quattordici anni, ma la sua statura e la sua corporatura, fecero si che quei militari lo credessero un uomo. Mamma Teresa e la sorella maggiore fecero di tutto per convincere i militari che quello era solo un bambino. Niente da fare, lo presero con la forza e lo caricarono su quel treno, mentre lui piangeva e chiamava la mamma.

Senza neppure avere il tempo di salutare sua madre e le sorelle, si ritrovò dentro il treno, tra gente che non conosceva, e che lo guardava. Erano tutti molto giovani, nessuno di loro piangeva, ma a guardarli bene, si rese conto che nessuno sembrava felice per quel viaggio.

Il suo pensiero andò ai fratelli che erano partiti in quelle stesse circostanze, qualche mese prima, e pensò: “Almeno loro erano in quattro, io invece sono solo”e mentre guardava fuori dal finestrino del treno in corsa, e vedeva allontanarsi, fino a scomparire, la sua casa, si preoccupò: “Adesso chi penserà alle donne di casa?” Finì quel pensiero con uno scossone del treno che lo costrinse a sedersi, per non cadere. Tante volte con i suoi fratelli si era avvicinato alle rotaie per vedere da vicino quel treno fumante, ma mai vi era salito.

Quello di fare un viaggio in treno era uno dei suoi desideri, ma non avrebbe mai voluto farlo in quelle circostanze. Ancora lo avviliva il pensiero della mamma che con lui aveva visto allontanarsi da casa sei uomini, figli e marito, ora era sola, con una bambina piccola e una figlia adolescente.

Enrico si rincuorò pensando che forse avrebbe ritrovato il papà e i fratelli. Cercò nelle tasche della giacca, che indossava un fazzoletto per asciugarsi l’ultima lacrima, trovò il quadernino e l’apis che portava

sempre con se, erano l’unica cosa che aveva. La mamma gli aveva insegnato ad appuntarsi tutto ciò che lo colpiva per un motivo o per l’altro, per lui quello era un modo per esternare i suoi sentimenti, amava molto scrivere. 

In quel momento prese a scrivere un fiume di parole, in una bella calligrafia, piccoli caratteri, per risparmiare spazio.

 In quelle prime pagine in cui descriveva minuziosamente ogni momento e sensazione, scrisse la parola “mamma” almeno un centinaio di volte. Quando rilesse il suo scritto se ne accorse e sorrise, in quel momento si rese conto di essere osservato. Si guardò intorno, il ragazzo che gli era difronte gli disse: “ che cosa stai scrivendo? Perché ridi? Fai ridere anche noi”. Enrico, stringendo gelosamente tra le mani il suo quaderno, rispose che non stava scrivendo niente di importante. Il viaggio fu lunghissimo, Enrico, che aveva un bel carattere, allegro e scherzoso, conobbe molti di quei ragazzi che viaggiavano con lui. 

Ebbe il tempo di stringere amicizia con un ragazzo, Francesco, che in seguito, sposò sua sorella Maddalena. Dopo ore di viaggio, il treno si fermò in una piccola stazione, ai piedi dei monti. Erano arrivati al confine con l’Austria. Era ormai notte, stanchi, affamati e frastornati, tutti i giovani passeggeri del treno furono fatti scendere, caricati su camion militari che li trasportarono in un accampamento militare, dove furono sommariamente sistemati per la notte in piccole e scomode brande. 

Quella fu una notte lunghissima, il tempo sembrava non passasse mai. Si sentivano lontani echeggiare gli spari, la consapevolezza di ciò che li aspettava rendeva quei ragazzi più uniti, anche se non si conoscevano. L’indomani mattina fu fatto l’appello, registrati, forniti di piastrina di riconoscimento e di divisa. Erano tutte della stessa taglia, ecco perché quando Enrico indossò la sua tutti lo derisero. Era veramente buffo, sembrava uno di quei pupazzi impagliati che si mettono in mezzo ai campi per spaventare i passeri. La giacca corta e stretta, i pantaloni cortissimi lasciavano scoperta una parte delle gambe. 

Qualcuno gli disse: “ eih! Ragazzo ti sei rasato le gambe ? non hai neppure un pelo!” Enrico, al quale non mancavano mai le risposte, disse: “No, non hanno avuto il tempo di spuntare, sono ancora

troppo giovane, ma vedrete che da domani inizieranno di sicuro a venir fuori.” Risero i suoi compagni, senza rendersi conto che Enrico aveva fatto dell’ironia perché le circostanze lo costringevano a diventare un uomo, anche se non era pronto. Si misero in fila per ricevere gli ordini, lui era il più alto di tutti, era l’ultimo. Erano il corpo scelto dei bersaglieri. Enrico fu fortunato perché in uno scontro a fuoco rimase ferito in una gamba, in modo non grave e trasportato in un ospedale da campo. Li, per una fatale coincidenza, fu curato dal padre che era il medico.

Il padre lo fece rimanere con lui ad aiutarlo a curare i feriti, così non tornò più al fronte. Enrico soccorreva i feriti e, senza bisogno di barelle, li portava in infermeria e li affidava alle cure del padre e delle crocerossine. In quella situazione aveva sempre una parola di conforto per tutti, e ogni tanto intonava una canzoncina che la mamma gli cantava da piccolo. Una mattina, cantando ad alta voce la solita canzone, passando vicino ad un vagone, presso la stazione, sentì qualcuno intonare quel suo motivetto. Strano! 

Quella strofa era stata inventata dalla mamma, era una canzone che conosceva solo lui e i suoi fratelli. 

Enrico si avvicinò a quel vagone in sosta e cantò più forte. 

Questa volta udì bene la voce, era quella di suo fratello. 

Senza farsi accorgere dai militari chiamò: “Giuseppe! Sei tu?” -“Si sono io, ci sono anche gli altri, sono tutti qui con me, ci credono ebrei, per questo sono giorni che siamo chiusi qui dentro, domani ci porteranno via”. – “ Ho trovato papà, sta a pochi chilometri da qui, aspettatemi, torno presto” detto ciò, senza esitare un momento, Enrico saltò su una bicicletta appoggiata sullo steccato poco prima da un militare, e via veloce come il vento, fino al campo dove si trovava il padre. Con il respiro affannoso disse: “Papà, papà li ho trovati, però dobbiamo fare presto” e in poche parole raccontò al padre le circostanze in cui aveva ritrovato i suoi fratelli.

 Il papà rimase un attimo perplesso e poi prese un pezzo di carta e si mise a scrivere, diede quel foglio al figlio e gli disse: “ metti un camice bianco, vai alla stazione e chiama per nome e cognome ad alta voce i tuoi fratelli, urla più forte che puoi, attira l’attenzione dei militari che sorvegliano il vagone e di loro che sei un medico e che in quel treno ci sono dei malati di febbre spagnola”. Enrico aveva capito quello che doveva fare, corse alla stazione, il vagone era ancora li. Fece un grosso respiro per farsi coraggio, e via, incominciò a correre lungo il binario in direzione del vagone. Urlava forte pronunciando i nomi dei fratelli, e quando i militari gli andarono incontro tirò fuori dalla tasca il certificato di malattia che aveva compilato il padre, e iniziò a dire: “malattia, malattia, sono tutti malati, è una malattia contagiosa”, intanto i militari si erano spaventati, avevano una gran paura di ammalarsi. Enrico aprì uno degli sportelli del vagone e scesero tutti i poveretti che vi erano rinchiusi, mentre i militari, tappandosi la bocca, li scacciavano via.

Erano tutti liberi, salvi, non solo i suoi fratelli, ma anche tutti gli altri, un centinaio di persone, forse di più, che in poco tempo si dispersero tra la gente. 

I cinque fratelli erano di nuovo insieme, sani e salvi.

 L’astuzia e la professionalità del padre e il coraggio di Enrico avevano salvato da morte certa i quattro fratelli e tutti gli altri.

 La famiglia tornò ad essere unita, quel figlio troppo piccolo per la guerra, aveva riportato la più grande vittoria.

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3 Risposte a “La vittoria di Enrico”

  1. Una bellissima testimonianza, grazie mille per avercela fatta conoscere.
    Ti seguo con piacere, Anna

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