Giovanni Bel..forte

In un piccolo paese di montagna, nella zona chiamata Valnerina, viveva un ciabattino di nome Giovanni.

Govanni bel..forte

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In quel tempo, circa duecento anni fa, il ciabattino non si limitava ad aggiustare le scarpe, ma le faceva con il cuoio, il feltro e le cuciva a mano.

Giovanni era molto bravo nel suo mestiere, ma a causa della sua minuta corporatura, tutti lo schernivano dicendogli frasi che a lui dispiacevano tanto:

“se si alza il vento, ti porta via come un fuscello…”

“sei così magro che non riesco a vederti “

“mangia, mangia che altrimenti uno di questi giorni cadi in terra dalla fiacca!”

Ogni giorno gliene dicevano una diversa, tutti nel paesello si prendevano la libertà di sfotterlo,  lui non si arrabbiava mai, l’unica cosa che sapeva rispondere era: “ridete, ridete, finchè potete!”

Nessuno sapeva a cosa alludesse, e senza curarsene continuavano a punzecchiarlo, anche i bimbi lo deridevano. Nessuno pensava ai suoi sentimenti, del resto rimaneva impassibile e giorno dopo giorno continuava a lavorare tranquillo.

Una mattina, mentre stava rimettendo i tacchi ad un paio di scarpe, si fermò sulla soglia del suo laboratorio Maria, la moglie del pastore, con in mano una ricottin e gli disse:

“hai fame Giovanni? La vuoi questa ricottina? Te l’ho preparata per te, non mangi mai!”

L’ometto, che da quando era rimasto solo mangiava di rado, ringraziò Maria per la sua cortesia.

Prese la ricottina e l’appoggiò su di un banchetto vicino a lui, con il proposito di mangiarla più tardi, perché aveva un piccolo lavoro da terminare.

Quando ebbe finito si ricordò della ricotta, a quel punto doveva essere ora di pranzo e l’avrebbe mangiata volentieri, non che avesse fame, ma gli era venuta voglia di assaggiarla.

Voltò lo sguardo per prenderla e quando fu per afferrarla si accorse che era ricoperta di mosche, prese un pezzo di cuoio, di quello che usava per fare le suole delle scarpe e con un colpo secco ci spiattello ricotta e mosche. Minuziosamente si mise a contare le mosche una a una, erano 300.

Gli venne un’idea, prese due pezzi di cuoio belli grandi, li unì con degli spaghi e ci scrisse:

”Giovanni Bel Forte con un colpo solo ne manda trecento alla morte”.

Prese i due cartelli e se li mise uno davanti e una dietro, se ne andò così in giro per tutto il paese per farsi vedere.

La gente incuriosita lo guardava, qualcuno leggeva, non tutti infatti nel paese sapevano leggere e scrivere,

ma nessuno si azzardava a ridere di lui.

Era proprio buffo conciato in quel modo, ci si chiedeva chi potessero essere quei 300.

Giovanni non svelò a nessuno il suo segreto.

Il paese era piccolo, abbarbicato in cima ad un monte, visto che l’aveva girato tutto in lungo e in largo, incominciò a scendere giù per la strada che conduceva a Triponzo, un paese vicino conosciuto per un presenza inquietante. Si trattava di un Orco che viveva rintanato in un palazzo, nel punto più alto del paese.

Girava la voce che si nutriva di bimbi, ma nessuno ne aveva mai notato la scomparsa.

Rimaneva comunque la convinzione di tutti che fosse un Orco cattivo.

Quando la gente di quel paese lo vide, leggendo il cartello, si convinse di aver trovato la persona adatta alla situazione, forse avrebbe potuto risolvere il loro problema. Giovanni fu convocato nella piazza del paese dalla gente che gli chiese di uccidere l’Orco. Senza pensarci due volte Giovanni accettò di affrontare quel gigante spaventoso, ma rispose:” Io lo sfiderò, non l’ucciderò, ho già ucciso troppe volte” disse riferendosi alle mosche sulla sua ricotta.

“Oh!… povero me, in che guaio mi sono cacciato, ora quell’Orco mangerà anche me!” esclamò e rassegnato a quel triste pensiero, si consolò tra se:” ah! Ma sono così magro che le mie ossa gli rimarranno tra i denti” e abbozzando un sorriso per farsi coraggio si diresse verso il vecchio palazzo in cima al paese.

Timoroso si avvicinò al muro di recinzione che circondava il palazzo, si tolse il cartello, provò a aprire il cancello, si accorse che era solo accostato.

Un gruppo di ragazzini che lo aveva seguito,  lo incitava ad entrare, ma quando Giovanni aprì il cancello scapparono spaventati.

“Adesso che cosa farò?” pensò Giovanni, “povero me in che guaio mi sono cacciato!” e sospirando incominciò a percorrere il vialetto che conduceva alla porta principale del palazzo.

Si guardava intorno, era come se in quel luogo il tempo si fosse fermato.

C’erano alberi altissimi e fitti, tanto che non si vedeva più neppure il cielo; i cespugli delle rose erano intrecciati con i rami dei rovi che soffocavano ogni altro cespuglio.

Sembrava di essere in una foresta!

Arrivato davanti all’uscio di casa si accorse che anche quello era aperto.

Entrò all’interno, timoroso ma curioso, ogni cosa gli sembrava enorme,  pensava tra se:

“in fondo è normale che tutto sia così grande!

È la casa di un Orco! Ma dov’è?”, e giravando nella stanza, iniziò a chiamare:

”Orco, Orco.. Signor Orco.. perché non mi rispondi?

Hai forse pura?”

All’improvviso sentì dei passi pesanti ed una voce cupa che diceva:

” chi ha osato entrare in casa mia? Chi mi ha svegliato?”,

ee.rco.. perché non mi rispondehe quello er apertoi dei rovi che soffocavano ogni altro cespuglio.  entrando nella stanza in cui c’era Giovanni, lo guardò e chiese:” ma tu chi sei? Chi ti ha mandato qui?”.

Il poveretto spaventatissimo rispose:

“sono venuto per sfidarti”,

e l’Orco incuriosito chiese:

“a sfidarmi? E in cosa vuoi sfidarmi tu?”, rispose l’Orco con una grande risata.

Giovanni improvvisò e disse:” voglio vedere chi di noi due è più bravo a costruire una casa sull’albero”.

L’Orco accettò la sfida.

Mentre Giovanni tagliava e appuntiva dei legni per costruire la casa, l’Orco iniziò a tagliare gli alberi che Giovanni gli aveva segnato, glieli fece pulire e tagliare in piccole tavole, mentre lui, furbo, le usava per costruire la casa sull’albero.  i suoi tronchi di legno però erano troppo grandi per costruire la casa sull’albero.

Quando la casina fu finita Giovanni chiamò l’Orco e gli disse:” vieni a vedere, la casa è pronta”.

L’Orco si avvicinò all’albero e vedendo la casina disse:

“ma è troppo piccola” e Giovanni replicò affacciandosi dalla finestrella: “ troppo piccola per te”.

Il gigante pensava di costruire una casa per lui, ma neppure l’albero più grande avrebbe potuto sopportare il suo peso.

Lui non aveva il senso della misura così perse la prova.

Giovanni gli diede un’altra possibilità.

Gli disse:” visto che le tue scarpe sono tutte rotte, io te le aggiusterò, però tu nel frattempo devi aggiustare il tetto e le finestre della casa che stanno cadendo a pezzi”.L’Orco, contento si tolse le scarpe e iniziò a lavorare. Iniziò dal tetto, poi le finestre, erano tante, gli ci volle tanto tempo.

Intanto Giovanni, che aveva finito il suo lavoro, si era addormentato sotto ad un albero.

Il gigante, credendo di aver finito prima del suo amico,

incominciò a girare per il giardino, chiamando:

“Giovanni, Giovanni! Ho finito, ma dove sei?”

Il piccolo uomo si svegliò, fece un grosso sbadiglio, e mentre l’Orco arrivava si alzò in piedi e prese in mano le scarpe che gli aveva aggiustato. L’Orco vedendole fu molto felice, perché sembravano nuove.

“Adesso devi venire con me” gli disse il calzolaio. “Dove mi porti?” chiese l’altro.

“ Mettiti le scarpe e vieni con me, te lo faccio vedere io dove ti porto, zitto e cammina”, così dicendo Giovanni fece cenno all’Orco di abbassarsi e gli salì sulla schiena, e via, lo fece dirigere fuori le mura del cortile.

Girarono tutto il paese e tutti acclamarono Giovanni al loro passaggio.

Il piccolo uomo, abbarbicato sulla schiena di quel gigante era felice e trionfante, ora davvero si sentiva d’essere forte.

Effettivamente tutti lo credevano veramente forte.

Da quel giorno, in suo, onore il paese in cui viveva fu

chiamato Belforte.

In un piccolo paese di montagna, nella zona chiamata Valnerina, viveva un ciabattino di nome Giovanni.

In quel tempo, circa duecento anni fa, il ciabattino non si limitava ad aggiustare le scarpe, ma le faceva con il cuoio, il feltro e le cuciva a mano.

Giovanni era molto bravo nel suo mestiere, ma a causa della sua minuta corporatura, tutti lo schernivano dicendogli frasi che a lui dispiacevano tanto:

“se si alza il vento ti porta via come un fuscello…”

“sei così magro che non riesco a vederti “

“mangia, mangia che altrimenti uno di questi giorni cadi in terra dalla fiacca!”

Ogni giorno gliene dicevano una diversa, tutti nel paesello si prendevano la libertà di sfotterlo,  lui non si arrabbiava mai, l’unica cosa che sapeva rispondere era: “ridete, ridete, finchè potete!”

Nessuno sapeva a cosa alludesse, e senza curarsene continuavano a punzecchiarlo, anche i bimbi lo deridevano. Nessuno pensava ai suoi sentimenti, del resto rimaneva impassibile e giorno dopo giorno continuava a lavorare tranquillo.

Una mattina, mentre stava rimettendo i tacchi ad un paio di scarpe, si fermò sulla soglia del suo laboratorio Maria, la moglie del pastore, con in mano una ricottin e gli disse:

“hai fame Giovanni? La vuoi questa ricottina? Te l’ho preparata per te, non mangi mai!”

L’ometto, che da quando era rimasto solo mangiava di rado, ringraziò Maria per la sua cortesia.

Prese la ricottina e l’appoggiò su di un banchetto vicino a lui, con il proposito di mangiarla più tardi, perché aveva un piccolo lavoro da terminare.

Quando ebbe finito si ricordò della ricotta, a quel punto doveva essere ora di pranzo e l’avrebbe mangiata volentieri, non che avesse fame, ma gli era venuta voglia di assaggiarla.

Voltò lo sguardo per prenderla e quando fu per afferrarla si accorse che era ricoperta di mosche, prese un pezzo di cuoio, di quello che usava per fare le suole delle scarpe e con un colpo secco ci spiattello ricotta e mosche. Minuziosamente si mise a contare le mosche una a una, erano 300.

Gli venne un’idea, prese due pezzi di cuoio belli grandi, li unì con degli spaghi e ci scrisse:

”Giovanni Bel Forte con un colpo solo ne manda trecento alla morte”.

Prese i due cartelli e se li mise uno davanti e una dietro, se ne andò così in giro per tutto il paese per farsi vedere.

La gente incuriosita lo guardava, qualcuno leggeva, non tutti infatti nel paese sapevano leggere e scrivere,

ma nessuno si azzardava a ridere di lui.

Era proprio buffo conciato in quel modo, ci si chiedeva chi potessero essere quei 300.

Giovanni non svelò a nessuno il suo segreto.

Il paese era piccolo, abbarbicato in cima ad un monte, visto che l’aveva girato tutto in lungo e in largo, incominciò a scendere giù per la strada che conduceva a Triponzo, un paese vicino conosciuto per un presenza inquietante. Si trattava di un Orco che viveva rintanato in un palazzo, nel punto più alto del paese.

Girava la voce che si nutriva di bimbi, ma nessuno ne aveva mai notato la scomparsa.

Rimaneva comunque la convinzione di tutti che fosse un Orco cattivo.

Quando la gente di quel paese lo vide, leggendo il cartello, si convinse di aver trovato la persona adatta alla situazione, forse avrebbe potuto risolvere il loro problema. Giovanni fu convocato nella piazza del paese dalla gente che gli chiese di uccidere l’Orco. Senza pensarci due volte Giovanni accettò di affrontare l’Orco, ma rispose:” Io lo sfiderò, non l’ucciderò, ho già ucciso troppe volte” disse riferendosi alle mosche sulla sua ricotta.

“Oh!… povero me, in che guaio mi sono cacciato, ora quell’Orco mangerà anche me!” esclamò e rassegnato a quel triste pensiero, si consolò tra se:” ah! Ma sono così magro che le mie ossa gli rimarranno tra i denti” e abbozzando un sorriso per farsi coraggio si diresse verso il vecchio palazzo in cima al paese.

Timoroso si avvicinò al muro di recinzione che circondava il palazzo, si tolse il cartello, provò a aprire il cancello, si accorse che era solo accostato.

Un gruppo di ragazzini che lo aveva seguito,  lo incitava ad entrare, ma quando Giovanni aprì il cancello scapparono spaventati.

“Adesso che cosa farò?” pensò Giovanni, “povero me in che guaio mi sono cacciato!” e sospirando incominciò a percorrere il vialetto che conduceva alla porta principale del palazzo.

Si guardava intorno, era come se in quel luogo il tempo si fosse fermato.

C’erano alberi altissimi e fitti, tanto che non si vedeva più neppure il cielo; i cespugli delle rose erano intrecciati con i rami dei rovi che soffocavano ogni altro cespuglio.

Sembrava di essere in una foresta!

Arrivato davanti all’uscio di casa si accorse che anche quello era aperto.

Entrò all’interno, timoroso ma curioso, ogni cosa gli sembrava enorme,  pensava tra se:

“in fondo è normale che tutto sia così grande!

È la casa di un Orco! Ma dov’è?”, e giravando nella stanza, iniziò a chiamare:

”Orco, Orco.. Signor Orco.. perché non mi rispondi?

Hai forse pura?”

All’improvviso sentì dei passi pesanti ed una voce cupa che diceva:

” chi ha osato entrare in casa mia? Chi mi ha svegliato?”,

ee.rco.. perché non mi rispondehe quello er apertoi dei rovi che soffocavano ogni altro cespuglio.  entrando nella stanza in cui c’era Giovanni, lo guardò e chiese:” ma tu chi sei? Chi ti ha mandato qui?”.

Il poveretto spaventatissimo rispose:

“sono venuto per sfidarti”,

e l’Orco incuriosito chiese:

“a sfidarmi? E in cosa vuoi sfidarmi tu?”, rispose l’Orco con una grande risata.

Giovanni improvvisò e disse:” voglio vedere chi di noi due è più bravo a costruire una casa sull’albero”.

L’Orco accettò la sfida.

Mentre Giovanni tagliava e appuntiva dei legni per costruire la casa, l’Orco iniziò a tagliare gli alberi che Giovanni gli aveva segnato, glieli fece pulire e tagliare in piccole tavole, mentre lui, furbo, le usava per costruire la casa sull’albero.  i suoi tronchi di legno però erano troppo grandi per costruire la casa sull’albero.

Quando la casina fu finita Giovanni chiamò l’Orco e gli disse:” vieni a vedere, la casa è pronta”.

L’Orco si avvicinò all’albero e vedendo la casina disse:

“ma è troppo piccola” e Giovanni replicò affacciandosi dalla finestrella: “ troppo piccola per te”.

Il gigante pensava di costruire una casa per lui, ma neppure l’albero più grande avrebbe potuto sopportare il suo peso.

Lui non aveva il senso della misura così perse la prova.

Giovanni gli diede un’altra possibilità.

Gli disse:” visto che le tue scarpe sono tutte rotte, io te le aggiusterò, però tu nel frattempo devi aggiustare il tetto e le finestre della casa che stanno cadendo a pezzi”.L’Orco, contento si tolse le scarpe e iniziò a lavorare. Iniziò dal tetto, poi le finestre, erano tante, gli ci volle tanto tempo.

Intanto Giovanni, che aveva finito il suo lavoro, si era addormentato sotto ad un albero.

Il gigante, credendo di aver finito prima del suo amico,

incominciò a girare per il giardino, chiamando:

“Giovanni, Giovanni! Ho finito, ma dove sei?”

Il piccolo uomo si svegliò, fece un grosso sbadiglio, e mentre l’Orco arrivava si alzò in piedi e prese in mano le scarpe che gli aveva aggiustato. L’Orco vedendole fu molto felice, perché sembravano nuove.

“Adesso devi venire con me” gli disse il calzolaio. “Dove mi porti?” chiese l’altro.

“ Mettiti le scarpe e vieni con me, te lo faccio vedere io dove ti porto, zitto e cammina”, così dicendo Giovanni fece cenno all’Orco di abbassarsi e gli salì sulla schiena, e via, lo fece dirigere fuori le mura del cortile.

Girarono tutto il paese e tutti acclamarono Giovanni al loro passaggio.

Il piccolo uomo, abbarbicato sulla schiena di quel gigante era felice e trionfante, ora davvero si sentiva d’essere forte.

Effettivamente tutti lo credevano veramente forte.

Da quel giorno, in suo, onore il paese in cui viveva fu

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